Nuovo allestimento a cura di Moni Ovadia e Studio Azzurro
daI poema di Yiannis Ritsos | traduzione di Nicola Crocetti
musica di Piero Milesi
interventi coreografici di Ariella Vidach
commissionato da Conversazioni 2016 per il Teatro Olimpico di Vicenza
Direzione artistica e video Fabio Cirifino, Laura Marcolini
Fotografia Fabio Cirifino
Montaggio video Alberto Danelli, Silvia Pellizzari
Postproduzione Emiliano Neroni
Software e interaction design Federica Rebaudengo
Suono Gioele Cortese
Coreografia Ariella Vidach
Danzatori Silvia Bastianelli (video), Andrea Dionisi, Francesca Linnea Ugolini
Il poema ÄÝëöé (Delfi) fa parte della raccolta ôÝôáñôç äéÜóôáóç (Quarta dimensione) e appartiene alla stagione più matura e più poeticamente compiuta dell’immensa e feconda produzione di Yannis Ritsos. Il personaggio a cui il poeta dà voce è un vecchio e spossato custode delle rovine del sito archeologico di Delfi che parla e urla la sua visione del mondo a un interlocutore muto.
L’ interlocutore senza voce, che non parla e sembra ascoltare distrattamente, è giovane, sfrontato, bello, bello anche perché non ancora gravato dallo scorrere del tempo, da esperienze e da sconfitte; appartiene a un futuro indifferente ai sentimenti del suo anziano compagno.
Il vecchio custode-cicerone delle rovine di Delfi sembra lanciare inutilmente il suo grido lancinante: è sfinito dalla routine del suo lavoro, dalla vacuità delle sue parole che suonano prive di senso nella volgare distrazione dei suoi interlocutori, i turisti, a cui parla ma che non lo ascoltano, a cui mostra senza che vedano. La sua smisurata stanchezza riflette l’estenuarsi della bellezza di un leggendario passato; le statue e gli edifici antichi sono spossessati del loro splendore nella banalità consumatrice del mortificante sguardo turistico che si ottunde nella ripetizione meccanica di scatti fotografici brutti e inutili. Il mutante turistico dell’uomo non vede, non ascolta, non partecipa. Le statue invece, nel loro indifeso biancore, vedono, ascoltano, sentono, capiscono, sono lungimiranti, conservano la memoria straziante, come quella di un esilio forzato.